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mercoledì 10 novembre 2010

Il vero dono dentro il “pacco”


BANCHI DI SOLIDARIETÀ: Il vero dono dentro il “pacco”


di Davide Perillo

08/11/2010 - Sabato, un migliaio di volontari in assemblea a Milano «per andare a fondo della propria esperienza». E per raccontarsi un bisogno senza fine, che passa anche da una scatola di lenticchie. Fino a scoprire «Cristo vicino».

Volontari preparano il "pacco"

Lo scopo? È chiaro. «È aiutarsi a cedere all’iniziativa di quell’uomo, Cristo, sulla nostra vita». Come duemila anni fa. Come quando tutto è iniziato. Come quando la carità è entrata nel mondo per restarci. Anche passando da un pacco pieno di viveri. È iniziata così l’Assemblea nazionale dei Banchi di Solidarietà al Teatro Smeraldo di Milano. Con parole che c’entrano poco o nulla con le questioni organizzative, le «cose da fare» e le tante incombenze che toccano una rete di 170 associazioni e oltre 4mila volontari che si occupano di raccogliere e distribuire generi alimentari a 30mila persone bisognose in Italia e non solo. Un migliaio di persone in sala, trentotto città collegate in video (il segnale arriva fino in Kazakistan). E Andrea Franchi, responsabile dell’opera, che taglia corto già in partenza. Vuole andare al cuore di quella che per migliaia di persone è diventata la «caritativa», cioè uno dei gesti educativi più importanti suggeriti da sempre dal movimento di Cl. Un modo per imparare la carità. Ricevuta e, quindi, vissuta, fino a tradurla in fatti. «Per questo abbiamo chiesto a don Eugenio Nembrini di essere qui con noi. Per andare a fondo dell’esperienza che stiamo facendo. Per giudicarla». E andare a fondo, sottolinea Nembrini, è anzitutto scoprire «l’iniziativa di Dio. Che è diventato un uomo. Così che qualche altro uomo, duemila anni fa, ha iniziato a gustare, a sentire su di sé, a sentirsi oggetto di questa attenzione infinita di Dio. Se non è per questo, è inutile anche tutto il bene che in qualche modo cerchi di fare».

Via con gli interventi, quindi. Che vanno subito a parare lì. A quel bisogno senza fine che sta dentro il «pacco», ma è infinitamente più grande. Quello che fa raccontare a Graziella di come, attraverso «due scatole di lenticchie», abbia scoperto «qualcuno con cui parlare che non ci giudica: un amico, finalmente». O che ha toccato Grazia, che ha iniziato portando il “pacco” a una famiglia con la madre in carcere e ha stretto un’amicizia tale, fatta di pranzi e cene e una condivisione senza misura, che quella stessa madre, da dietro le sbarre, le scrive: «Attraverso di voi ho scoperto il vero dono che Gesù mi voleva fare: essere libera in ogni luogo». «Vedete? Non è roba nostra, ma accade», sottolinea Nembrini: «Siamo qui a dire “quanto siamo bravi” o “che roba impressionante quando Dio incontra il bisogno dell’uomo?”. Noi siamo come il filo della luce. La luce è un’altra cosa. È il filo che permette alla luce di arrivare».

Altre testimonianze. Altri fatti. Fabrizio, nome italianizzato di un amico iraniano, vive nel Torinese da trent’anni. Ha incontrato «quelli del Banco», ed «è cominciata la mia seconda vita. È un grande dono di Dio». Non è battezzato, Fabrizio. Ma ora va a messa. «Perché sento Gesù sempre più vicino a me». «I Banchi, nella forma, potrebbero cambiare domani», dice ancora Nembrini: «Le facce essere diverse. Ma la questione è se in quella faccia, in quel particolare, abbiamo tutti la semplicità di riconoscere i tratti inconfondibili della presenza del Mistero. Che commozione che dentro il mio bisogno, e la realtà che in qualche modo risponde, incomincio a vedere quel volto misterioso». Come ha fatto Fabrizio. Ma come raccontano anche Valentina, Norberto... O Chiara, che porta il pacco a una famiglia in cui la madre è morta da poco. «Subito dopo il funerale sono scappati tutti, in fretta. Non sapevano come starci davanti. Cosa dici a una bambina di nove anni che ti chiede: “Perché mia mamma è morta?”». Lei e i suoi amici del Banco, però, sono rimasti. «Non era da me. Ma ho dovuto fare i conti con la mia esperienza. Era la resa dei conti. Come affrontare questa situazione se non hai incontrato tu qualcosa che vince la morte?». E ancora, Valentina, che davanti alla famiglia assistita si ritrova «come di fronte a uno specchio che mi dice: ecco, anche tu sei così. Hai un buco nello stomaco, come il mio. È incredibile come un gesto apparentemente così piccolo vada a toccare tutto quello che fai nella vita». O Giovanni, di Pellestrina, che racconta dei «pennoni», «dei brividi che invadono la mia vita, a fare un gesto così, e sono l’umano. La mia umanità».

Un’ora e mezza, fitta e intensa. «Ma io starei qui ancora», chiosa Nembrini, «a sentire parlare di Cristo. Che è una presenza, non un’idea. Dev’essere stato qualcosa del genere per quei due, davanti al Battista che quel giorno disse: “Ecco l’Agnello di Dio”. Tutti avevano davanti i testimoni, tutti avevano lo stesso desiderio. Ma questi due sono andati in fondo. Completando il percorso. Il desiderio, il testimone, di cosa sono segno? Il bisogno, di cosa è segno? Di Lui. Non abbiate timore di fare tutto il percorso di conoscenza, di giudicare quello che capita a voi, per poter arrivare a Lui. Cedere a questo è la carità più grande, per noi e il mondo».

Fine assemblea. Chiude Franchi, chiamando per nome quello che tutti hanno negli occhi e nel cuore: «Siamo commossi. Un’umanità cambiata da Cristo commuove. E questo è un giudizio sulla nostra opera. Perché quello che emerge è il valore educativo di questo gesto. Il gesto di carità è la dimensione di un uomo che comincia a cedere a Cristo». Dentro il “pacco”. Ma molto più in là.

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